Pasolini Marketing: rileggere (e riscrivere) la pubblicità

Naming, slogan, copy, storytelling – chi lavora nel campo della pubblicità e dei mass media fa i conti ogni giorno con i mille modi in cui facciamo riferimento agli atti del “comunicare per vendere”. In pubblicità la lingua si espande, si contrae, viene distorta o si sclerotizza – tutto purché soddisfi la le intenzioni di chi vuole conferire al proprio messaggio il massimo dell’efficacia.
In uno scenario come questo, finalizzato alla vendita e quindi alla persuasione a tutti i costi, che reazioni può suscitare la pubblicità nella mente di un letterato?
Per approfondire questa curiosità abbiamo scelto di rileggere la storia di Pasolini e dei Jeans Jesus, un confronto tra letteratura e marketing che a quasi cinquant’anni di distanza può ancora offrirci spunti preziosi per fare buona pubblicità.
Un passo indietro: definiamo “pubblicità”
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Sul piano teorico, ognuno di noi è dotato del suo bel dizionario – qui cartaceo, lì digitale, là online. Per non scomodare il circolo dei lettori passiamo direttamente alla cara, vecchia descrizione offerta da Treccani, secondo cui la pubblicità è:
“L’insieme di tutti i mezzi e modi usati allo scopo di segnalare l’esistenza e far conoscere le caratteristiche di prodotti, servizi, prestazioni di vario genere predisponendo i messaggi ritenuti più idonei per il tipo di mercato verso cui sono indirizzati”.
Possiamo essere abbastanza soddisfatti, ma da sempre du’ fonti is mègl che uàn (ah, la persistenza dello slogan…) – sicchè scomodiamo Garzanti:
“Insieme degli strumenti con i quali un’impresa richiama l’attenzione del pubblico sul proprio prodotto e ne propaganda le qualità, nell’ intento di incrementarne le vendite”.
Ci siamo: la pubblicità è l’insieme di attività divulgative circa un dato bene o servizio allo scopo di offrirne la necessaria percezione positiva che conduce a più ampie possibilità di vendita.
Dal momento che per questo articolo abbiamo scelto di dedicarci al confronto con un letterato illustre, va da sé che la parte dell’advertising sulla quale ci concentreremo è quella che più li rappresenta: la parola – o il copy, come siamo abituati a chiamarla.
Pasolini e i jeans Jesus
Il 17 maggio 1973 il Corriere della Sera ospita un appassionato intervento di Pasolini intitolato Il folle slogan dei jeans Jesus.
Oggetto della disamina è una pubblicità curata da Emanuele Pirella per Jesus Jeans, un marchio fondato due anni prima dal Maglificio Calzificio Torinese.
Sulle foto ammiccanti (una zip slacciata su un pube dal sesso ambiguo e un sedere fasciato in pantaloncini cortissimi) scattate da Oliviero Toscani campeggiano due slogan destinati a destare tutta l’attenzione mediatica che una campagna pubblicitaria può augurarsi: “Non avrai altro jeans all’infuori di me” e “Chi mi ama mi segua”.
Suonano familiari?
Nella sua riflessione, Pasolini si concentra sul rapporto tra Chiesa e neocapitalismo (l’Osservatore Romano aveva rivolto alla magistratura la richiesta di sequestro dei manifesti) ma non manca di interrogarsi sull’uso della lingua e della citazione portato avanti dai pubblicitari coinvolti.
La riflessione sulla parola confluirà negli Scritti Corsari (“Analisi linguistica di uno slogan”), e ne riportiamo di seguito un passaggio particolarmente significativo:
“I tecnici parlano fra loro un gergo specialistico, sì, ma in funzione strettamente, rigidamente comunicativa. Il canone linguistico che vige dentro la fabbrica, poi, tende ad espandersi anche fuori: è chiaro che coloro che producono vogliono avere con coloro che consumano un rapporto d’affari assolutamente chiaro.
C’è un solo caso di espressività -ma di espressività aberrante- nel linguaggio puramente comunicativo dell’industria: è il caso dello slogan. Lo slogan infatti deve essere espressivo, per impressionare e convincere. Ma la sua espressività è mostruosa perché diviene immediatamente stereotipa, e si fissa in una rigidità che è proprio il contrario dell’espressività, che è eternamente cangiante, si offre a un’interpretazione infinita.”
Secondo Pasolini, la “colpa” dello slogan è quella di essere portatore di una “finta espressività” foriera di omologazione, appiattimento e banalizzazione del linguaggio.
E allora, è proprio quando la carica sovversiva di uno slogan supera la sua sclerotizzazione possiamo parlare di progresso: davanti ai claim dei Jesus Jeans, l’espressione scelta diventa “un fatto nuovo, una eccezione nel canone fisso dello slogan” e rivela “la possibilità imprevista di ideologizzare, e quindi rendere espressivo, il linguaggio dello slogan e quindi presumibilmente, quello dell’intero mondo teconologico”.
E a ben vedere, il claim dei Jeans Jesus non è l’unico ad aver trovato origine in un sovvertimento di contesto: il celeberrimo slogan Just do it, coniato per Nike da Dan Wieden, non è che un sottilissimo rimaneggiamento delle ultime parole del killer americano Gary Gilmore, che appena prima di essere fucilato indirizzò uno sprezzante “Let’s do it” al plotone d’esecuzione – una scelta verbale che colpì a tal punto il pubblicitario da spingerlo a lavorare su quel materiale grezzo e doloroso per utilizzarlo a fini promozionali (con grande successo, possiamo affermare a posteriori). Nel mondo liscio e scivoloso della persuasione, quel Just do it potrebbe essere considerato rozzo, fastidioso, prepotente – eppure ci convince senza fatica ad obbedirgli acquistando un altro paio di sneakers.
Senza nemmeno spostarci dal mondo delle calzature sportive, ci basta prendere in considerazione Adidas per trovare un altro grandioso piccolo plagio: Impossible is nothing è una frase pronunciata da Muhammad Ali, un grande fan del giovane (a quel tempo) marchio che il brand non ha esitato a citare per raggiungere il doppio risultato di slogan efficace e prova di endorsement.
Che si tratti di comandamenti religiosi o delle ultime parole di un condannato, tradizione e realtà possono essere plasmate, truccate e rovesciate per incarnare un messaggio che trae la propria forza proprio dalla contrapposizione con l’originale, o con il suo probabile contesto d’elezione (nel caso di Adidas basta guardare alle campagne dell’ultima decade per notare una certa distanza dal vecchio ring di Cassius Clay e dal genere di testimonial).
Un buono slogan come quello dei Jeans Jesus (affatto originale nella composizione, ma assolutamente fuori dagli schemi per applicazione) può quindi rappresentare una via di scampo dall’omologazione totale e dagli schemi ciechi di quella pubblicità prêt-à-porter che, per dirla con le parole di Stephen Leacock, rappresenta “la scienza di arrestare l’intelligenza umana per il tempo necessario a spillarle quattrini”.
Perché la buona pubblicità è persuasione, e non circonvenzione distratta: l’obiettivo è giocare una partita a scacchi con il consumatore e vincere le sue resistenze a non abbandonarsi alla voglia del possesso, e non approfittare di una distrazione per aggiudicarci lo scacco matto della vendita.