Mancanza di imprenditorialità: da dove viene il quadro attuale?
In un mercato incerto, le aspirazioni individuali si allontanano dal business per rincorrere le promesse del “posto sicuro”. Come e perché accade?
Il 19° rapporto globale sull’imprenditorialità redatto dal GEM – Global Entrepreneurship Monitor per il biennio 2017/2018 ha preso in considerazione 54 Paesi che insieme rappresentano circa il 68% della popolazione e l’86% del PIL mondiale.
Tra i parametri valutativi proposti dal rapporto spicca la novità dell’Indice dello Spirito Imprenditoriale, descrivibile come una misura della propensione al mettersi in gioco e dell’acquisizione di una mentalità aziendale.
Non senza qualche sorpresa, la top ten dei Paesi con il maggiore indice di SP vede sul podio Arabia Saudita, Libano e Indonesia: contrariamente a quanto ci saremmo potuti aspettare, i Paesi europei più ricchi (e spesso considerati più imprenditorialmente avanzati) entrano nella classifica solo all’ottavo posto (occupato dalla Svezia), per poi ricomparire al decimo.
Il “voto” assegnato all’Italia è ben lontano dalla sufficienza: al nostro Paese spetta il quartultimo posto, con un punteggio di spirito di imprenditorialità negativo (-0.45) che si posiziona meglio soltanto rispetto a Bosnia-Erzegovina, Grecia e Giappone.
Per assegnare il punteggio relativo all’Indice, i ricercatori si sono basati su tre domande rivolte a un campione di soggetti di età compresa tra i 18 e i 64 anni attraverso modalità ripetute in ognuno dei Paesi considerati.
I quesiti proposti chiedevano se gli intervistati conoscessero qualcuno che avesse avviato un’attività nell’ultimo anno, se ritenessero o meno che il proprio territorio offrisse buone opportunità e se i partecipanti credessero di possedere le capacità ritenute necessarie per aprire un’azienda.
Le risposte ci offrono un utile riscontro circa la percezione dell’imprenditorialità a livello personale e collettivo, gettando luce sulle possibili motivazioni collegate con l’ottenimento di un punteggio positivo o negativo all’interno della classifica stilata.
Oltre all’Indice dello Spirito imprenditoriale, il GEM ha tenuto in considerazione anche molte altre variabili. Tra queste vale la pena citare il TEA – Tasso di Attivazione Imprenditoriale, che calcola la percentuale della popolazione adulta di età compresa tra 18 e 64 anni che sta avviando un’impresa o ha dato vita a un’attività commerciale da meno di 42 mesi.
Il dato risultante ci aiuta a stimare la vivacità imprenditoriale di un Paese e suggerisce le dinamiche di opportunità, inclusività, difficoltà e impatto legati alle realtà imprenditoriali locali. Anche in questo caso, la performance del nostro Paese non è affatto brillante: l’Italia si colloca al 51° posto nel ranking mondiale.
L’imprenditorialità come risorsa
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Non è un mistero che le potenzialità e le prospettive di un’azienda sono in larga parte legate alle competenze e ai comportamenti del vertice imprenditoriale, inteso come singola persona o come set di dirigenti. Ecco perché è così importante prestare attenzione all’analisi della relazione tra le performance aziendali e le capacità dell’imprenditore: le reazioni delle aziende agli stimoli esterni, infatti, soprattutto considerando quelle di piccole o medie dimensioni, si configurano come il risultato di un processo cognitivo portato avanti attraverso le competenze e le capacità dei decisori strategici.
Tali capacità, rientrando nel “corredo di competenze” che l’individuo ha maturato nel corso della propria vita (e della propria carriera), sono ovviamente caratterizzate da un soggettivismo legato al sistema di valori del singolo e alle sue specificità di natura biografica.
Naturalmente, a determinare l’entità della capacità imprenditoriale sono anche le motivazioni, a seconda delle quali è più o meno probabile che un’impresa raggiunga il successo. Ad esempio, come facilmente intuibile, chi intraprende la carriera imprenditoriale in modo obbligato (perché è il business di famiglia, perché non ci sono alternative, perché “bisogna fatturare”) sarà più incline al fallimento rispetto a coloro che sono genuinamente interessati a sfruttare le proprie capacità imprenditoriali per migliorare il proprio livello sociale, economico e professionale.
A questo proposito vale la pena ribadire che questa differenza non si apprezza soltanto a livello di imprese individuali, ma si fa sentire (spesso amplificata) anche in contesti ampi e strutturati.
Insomma: a decretare il successo di un business non sono le dimensioni ma l’approccio di chi lo costituisce. Il mercato tende infatti a premiare le realtà dotate di passione per l’innovazione che dimostrano di considerare l’impresa come un possibile strumento di sviluppo personale e ambientale; mentre si dimostra particolarmente severo nei confronti dei business che mantengono il proprio cerchio d’interesse all’interno dei desideri e delle necessità individuali o familiari.
Mancanza di imprenditorialità: da dove viene?
Ipotizzare che l’assenza o la carenza di imprenditorialità sia da attribuire esclusivamente ai singoli individui sarebbe allo stesso tempo ingenuo e ingiusto.
Ecco alcune motivazioni che possono spiegare perché ci sono così poche persone disposte a mettersi in gioco a livello di business:
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L’educazione ignora l’imprenditorialità
Nel corso dell’istruzione obbligatoria (e spesso anche nelle Università), la possibilità di avviare un’impresa non viene mai descritta e proposta come alternativa percorribile.
Tra i “lavori da fare da grande”, insomma, sembra non esserci spazio per l’impresa. Questa mancanza di familiarità con la prospettiva imprenditoriale può facilmente spiegare perché per molte persone l’idea di lavorare in proprio risulti astratta e assolutamente distante. -
Instabilità e insicurezza: la paura del fallimento
Numerosi esponenti delle “vecchie generazioni” insegnano ai giovani che prima di diventare imprenditori è necessario fare una lunga (secondo qualcuno decennale) gavetta come dipendente per “imparare i trucchi del mestiere” e capire cosa fare (e cosa non fare) per gestire un’impresa. Peccato che nella quasi totalità dei casi al lavoratore dipendente vengano assegnati compiti lontanissimi dalla gestione aziendale.
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Mancanza di idee vincenti
Pensare che fare impresa sia impossibile solo per mancanza di mezzi può essere una spiegazione codarda del fenomeno: quanti imprenditori mancati hanno mollato esclusivamente per una questione di risorse, e quanti invece si sono dovuti arrendere alla carenza di idee competitive?
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Carenza di motivazioni
La maggior parte delle persone lavora perché farlo è (quasi sempre) indispensabile. Anche l’individuo più innamorato del proprio mestiere ha pensato almeno una volta di mollare tutto a causa di fattori esterni come un ambiente di lavoro negativo, risultati non soddisfacenti o mancanza di riconoscimento da parte di superiori e/o clienti. Quando lo spirito imprenditoriale vacilla è indispensabile avere più di una motivazione per continuare – e quella economica è più fragile di quanto si pensi.
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Mancanza di organizzazione
Avere spirito imprenditoriale non equivale per forza ad essere dotati di capacità manageriali. Ecco perché anche le realtà più promettenti rischiano di schiantarsi al suolo nel momento in cui le performance attese richiedono un’organizzazione e un assetto strutturale che il neo-imprenditore non riesce a garantire.
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Lo Stato: un alleato mancato
In molte situazioni, i colpi bassi che il mercato risparmia a un’impresa promettente vengono recuperati (magari con potenza esponenziale) dallo Stato, una sorta di socio capriccioso che può costare da poco a moltissimo e spesso non produce quello che un imprenditore si aspetterebbe.
Conclusioni
Sicuramente questo articolo ha ritratto il mondo dell’imprenditorialità a tinte fosche, con abbondanza di chiaroscuri plumbei, ma analizzare quello che non va è il primo passo per iniziare a raddrizzare il tiro.
Se hai un’impresa che non ti soddisfa, se sei un lavoratore dipendente e vorresti essere autonomo, oppure se non hai ancora deciso “cosa farai da grande” (l’età è ininfluente!), speriamo di averti fornito qualche utile spunto di riflessione: si parte sempre da lì.