“È COMPLICATO”: la complessità nella vita quotidiana
“È complicato”: la complessità nella vita quotidiana
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La realtà in cui viviamo ci si presenta come straordinariamente sfaccettata: ci troviamo in un’epoca caratterizzata dall’informazione crossmediale, dalla comunicazione istantanea e da una fluidità senza precedenti.
Il progresso sembra non essere mai stato così veloce, e mentre taglia i tempi della staffetta delle novità è impossibile non notare come il mondo sembri diventare sempre più complicato.
In questo articolo affronteremo la complessità come elemento del quotidiano, cercando di rintracciare spunti utili per iniziare a costruire un approccio di “addomesticamento” del concetto che possa aiutarci a trattenere le conseguenze positive della complicazione e a disfarci delle zavorre imposte dal capriccio della semplificazione.
La complessità come frutto della semplificazione
Il concetto di complessità non può essere districato e omesso dalla rete di aspetti che costituiscono il nostro quotidiano.
Anche nella forma più semplice di trasmissione di un messaggio, come la comunicazione tra due individui, non è difficile rintracciarne il seme: ogni parola pronunciata assumerà un determinato valore in base alla lingua utilizzata, al tono con cui viene proferita, alla gestualità del parlante e al contesto nel quale avviene lo scambio; e un errore in uno qualsiasi di questi livelli comporterà una decodifica errata, o addirittura impossibile, del messaggio.
L’essere umano è, per sua natura, un costruttore di complessità: linguisticamente, ci serviamo dei sinonimi per diluire il senso di una parola in sfumature dal tono preciso; a livello pragmatico, non esitiamo a implementare sistemi non spontanei per organizzare o riordinare il mondo che ci circonda, complicandolo ulteriormente.
Pensiamo a uno scenario banale come può essere il bancone della gastronomia all’interno di un supermercato: per far sì che il servizio rispetti il privilegio di priorità basato sull’ordine di arrivo, un’apposita macchina distribuisce speciali biglietti numerati.
Per garantire a tutti la possibilità di verificare l’andamento delle attività, il banconista fa avanzare i numeri (uno ad uno, ordinatamente, in ordine crescente) su uno schermo a mano a mano che i clienti corrispondenti vengono serviti ed escono di conseguenza dalla fila.
Con l’obiettivo di tenere a bada il caos, in questo caso l’eventualità che i clienti inizino a spintonarsi tra di loro per aggiudicarsi il servizio, al pericolo della calca si contrappone il sistema della coda organizzata.
L’occhio può godere di una fila più o meno ordinata, e ogni cliente può crogiolarsi nel riconoscimento offerto dal proprio numero, ma non possiamo negare che il procedimento abbia reso l’esperienza più complessa di quanto non debba necessariamente essere.
Immaginiamo che davanti al bancone sostino due clienti: uno intento a richiedere i prodotti che desidera, l’altro in attesa del suo turno.
- È davvero necessario che i due regolino il proprio rapporto con il salumiere attraverso il sistema dei numeri crescenti attribuiti in base all’ordine di arrivo?
- Potremmo dire di no, ma cosa accadrebbe se arrivasse un terzo cliente?
- Chi o cosa regolerebbe il principio di coda?
In questo caso, la complessità del sistema adottato fa da supplente all’eventuale mancanza di senso civico dei protagonisti – ovvero scegliamo la relativa sicurezza della complessità rispetto ai rischi presentati da una realtà spontanea in cui il comportamento di ogni elemento in gioco si ripercuoterebbe implacabilmente sul mondo che lo circonda.
Nel 1962, Edward Lorenz analizzò l’“effetto farfalla”, una locuzione che spiega metaforicamente la nozione di dipendenza sensibile alle condizioni iniziali propria della Teoria del Caos.
In base all’effetto farfalla, una (anche minima) mutazione delle condizioni al principio di un sistema può provocare deviazioni (anche macroscopiche) nello sviluppo del modello. Su questa intuizione si basa una vasta filmografia fatta di pellicole di successo come Lola corre, Sliding Doors, Donnie Darko o l’omonimo The Butterfly Effect.
Immagina:
il salumiere fa scattare il numero 77.Non risponde nessuno. Il banconista fa scattare il 78, che prontamente fa la sua prima richiesta. Non appena il 79 compare sullo schermo e il cliente corrispondente si fa avanti, pizzicagnolo e utente restano impietriti davanti a un terzo individuo che arriva correndo dalla corsia dei surgelati dicendo “Io ho il 77!”.
Cosa c’entra questa digressione?
Pensaci: probabilmente il numero 79 prenderà a brutte parole il numero 77, o magari si limiterà a bofonchiare qualcosa sull’ingiustizia subita.
Il salumiere, stressatissimo, tenterà quindi di servire il numero 79 con impressionante rapidità, infilando incautamente un dito nell’affettatrice. Inviato al pronto soccorso, il suo posto sarà preso dalla collega al banco della pescheria, che a causa dell’inesperienza servirà al signor Pino il salame sbagliato.
Arrivato a casa, il signor Pino consegnerà alla moglie il suo cartoccetto di affettato, e la moglie sbotterà durante la cena gridando che il marito non ne azzecca una, non la ascolta mai e in 25 anni di matrimonio l’ha solo indispettita.
La moglie del signor Pino farà quindi i bagagli per tornare a vivere dai suoi genitori, e attraversando la strada senza guardare costringerà un autista di autobus notturni a schivarla pericolosamente, provocando la caduta del sacchetto della spesa della signora in prima fila, che a causa delle uova rotte durante l’impatto non avrà gli ingredienti necessari per preparare la torta di compleanno al suo primo nipotino, il quale per questo motivo verrà ritratto con volto deformato dal pianto in tutte le foto di famiglia, che una volta appese ai muri del corridoio gli causeranno in età adolescenziale profusi imbarazzi. Insomma: se il giovane Giulio non avrà una vita sociale esaltante sarà colpa anche del numero 77.
Questo volo pindarico è un’ulteriore riprova di quanto affermato in precedenza: per semplificare il discorso riportando una teoria al pragmatismo della vita reale abbiamo utilizzato la forma complessa della storia.
La realtà come semiosi illimitata
Secondo Charles Sanders Peirce, uno dei padri della semiotica, il pensiero umano fluisce per associazioni, passando da un oggetto mentale all’altro grazie catene più o meno imprevedibili.
Questa nostra sorprendente capacità di generare un flusso potenzialmente infinito di pensieri è una risorsa preziosa, ma allo stesso tempo rappresenta un rischio: quello della semiosi illimitata.
Se non ci accontentassimo di sciogliere un segno (ovvero una qualsiasi cosa dotata di significato) per arrivare a un’interpretazione logico-finale dello stesso, potremmo infatti rimanere vittime di una catena di rimandi e decodifiche senza confini.
Peirce ci spiega la semiosi illimitata attraverso la storiella dell’incendio: una persona vede del fumo e decodifica immediatamente il fumo come segnale che qualcosa sta andando a fuoco.
La persona grida “Al fuoco!” e un passante, sentendo il grido, decodifica il grido come il segnale lanciato da qualcuno che ha visto qualcosa andare a fuoco. Il passante chiama i pompieri, che interpretano la chiamata come la reazione di un individuo che ha appreso (in qualche modo) della presenza di un fuoco pericoloso.
Di questo passo potremmo andare avanti per molto: un bambino vede il camion dei pompieri passare con le sirene accese, e magari griderà “Mamma, i pompieri!”, comunicando indirettamente alla madre che qualcosa nei paraggi è andato a fuoco.
E qui è opportuno citare Eco, per il quale i processi che consentono la semiosi illimitata sono frutto dell’enciclopedia interiore attraverso la quale interpretiamo il mondo, interiorizziamo nuovi input e ci relazioniamo con la realtà.
Tornando quindi al tema della complessità, possiamo affermare che la nostra relazione con tutto ciò che ci circonda è fatta di disordine e controllo: un universo di possibilità da sfoltire fino a individuare quelle più idonee alla nostra situazione; un magma da organizzare al prezzo della costruzione di sistemi che complicano la realtà con l’obiettivo di strutturarla e di renderla più ordinata, e più facilmente fruibile.
Orientarsi all’interno di una biblioteca senza conoscere i criteri di disposizione dei volumi può essere difficile, eppure le regole di distribuzione del materiale fanno sì che gli utenti non debbano affidarsi al caso per rintracciare il testo di loro interesse in una montagna informe di fascicoli rilegati.
Questo perché il mucchio è meno complesso dei sistemi della biblioteconomia, ma non per questo più gestibile: quello che si guadagna in semplicità si perde in ordine, così come ciò che si guadagna in termini di ordine presuppone una perdita di immediatezza.
Ordine e disordine: convivere con la complessità
La parola “complessità” deriva dall’aggettivo “complesso”, che ha origine nel participio passato latino “complexus”, da “complector”: abbracciare, intrecciare.
Sondando la stessa lingua, scopriamo che “complicato” è erede del latino “complicare”: cum plicare, ovvero “piegare insieme”. Possiamo attribuire un’immagine a questa attività, per esempio quella di due grandi asciugamani sovrapposti e poi ripiegati più volte.
Ogni plica nasconde una parte di superficie, e ogni grinza fa sì che la nostra visione dei teli sia terribilmente parziale.
Una cosa complicata è esattamente così: ha tanti aspetti, non tutti immediatamente percepibili, e ha bisogno, per essere compresa, di essere spiegata, ovvero di riacquistare una forma piana, “aperta”.
La complessità è il frutto della nostra volontà e del nostro bisogno di creare reti, e la complicazione è la diretta conseguenza di strati che si sovrappongono gli uni agli altri: pensieri, abitudini, comportamenti, norme, credenze e molto altro.
Come ripieghiamo un lenzuolo per far sì che l’armadio sia ordinato e più facilmente utilizzabile, così complichiamo la nostra realtà creando sovrastrutture che conferiscano un ordine (o una parvenza di questo) a ciò che ordinato non è: il caos di ogni giorno, l’imprevedibilità di gran parte della nostra vita, le relazioni con gli altri.
Potremmo dire che la complessità è una difficoltà (o una complicazione?) di cui non possiamo fare a meno, qualcosa che ingrassiamo con il progresso e la voglia di plasmare la realtà sulla base dei nostri obiettivi e dei nostri bisogni.
Senza poter sciogliere fino in fondo il nodo della domanda che chiede se sia più auspicabile la semplicità del caos o la complessità dell’ordine nelle sue varie forme, non ci resta che decidere fino a che punto siamo disposti a complicare le cose e quanto possiamo, dall’altra parte, tollerare il disordine della realtà.