Leadership e sensemaking: creare valore nella squadra
Con la parola “sensemaking” (o sense making) facciamo riferimento a una disciplina, ma anche a uno specifico insieme di skills e al risultato che con queste possiamo raggiungere.
Abbiamo già fornito in un altro articolo gli elementi chiave per scoprire di cosa stiamo parlando, e in questo articolo ci concentreremo sull’utilità del sensemaking come imprescindibile caratteristica distintiva del leader.
Cosa significa sensemaking? Un piccolo riassunto.
Contenuti
Il sensemaking, teorizzato e descritto nel corso degli anni ’70 dal teorico dell’organizzazione Karl E. Weick (noto anche per fondamentali intuizioni su loose coupling e mindfulness), è l’insieme di processi attraverso i quali gli esseri umani attribuiscono un significato alle proprie esperienze collettive.
Secondo Weick, infatti, era (ed è) necessario attribuire a questo tipo di approccio la stessa attenzione tradizionalmente riservata al più popolare concetto di decision making, per concentrarci sui processi che costituiscono il significato delle scelte stesse, ovvero il motore capace di tradurre le decisioni in comportamenti.
Per Weick, il perno del sensemaking risiede nell’identità, ovvero in ciò che le persone pensano di essere, un concetto che modella il modo in cui gli individui agiscono e interpretano gli eventi.
Il ruolo da co-protagonista è attribuito alla retrospezione, cioè alla capacità di individuare a posteriori le caratteristiche principali di un evento o di un processo.
Attraverso identità e retrospezione, gli individui “spiegano” la realtà che si trovano davanti secondo narrative diverse in base all’epoca e alla cultura di riferimento (basti pensare ai miti e alle leggende elaborati per dare un senso accettabile a fenomeni altrimenti inspiegabili), plasmando un sistema di credenze condivise e co-costruite.
Utilità collettiva: a cosa serve il sensemaking?
Il sensemaking rivela la propria utilità con particolare forza nei momenti di crisi o incertezza.
Proprio come accade quando abbiamo bisogno di digerire un evento personale e farcene una ragione (“Probabilmente è finita perché non condividevamo le stesse priorità”), quando dobbiamo affrontare una situazione complessa facciamo ricorso alla nostra comprensione del contesto e degli eventi passati per comprendere le caratteristiche di ciò che stiamo affrontando e tracciare con altri una visione globale.
Una piccola curiosità alla quale magari non hai mai pensato: quando affrontiamo un problema, lo immaginiamo come una specie di complesso intreccio che dobbiamo sforzarci di dipanare (non a caso si cerca di trovare “il bandolo della matassa”, o di far arrivare il nodo “al pettine”). In realtà, la nostra capacità di concepire il problema è già parte della soluzione: significa che abbiamo isolato un certo numero di elementi della realtà e che li abbiamo collegati per rintracciare qualcosa che attira la nostra curiosità e ci chiede di trovare il modo migliore per saperne di più.
Il sensemaking fa naturalmente parte delle strategie che adottiamo, per esempio, davanti a dilemmi come quelli costituiti dai disastri, naturali o causati da mano umana: perché si è verificata l’inondazione del Vajont? Come poteva essere evitata? Cosa dobbiamo fare per assicurarci che non accadano più disastri simili?
Davanti all’orrore, il nostro cervello collettivo attiva la sua capacità di retrospezione per avviare un processo di sensemaking che ci aiuti a dare una spiegazione a ciò che è accaduto e che sappia illuminare la strada.
In questa prospettiva, appare naturale che sensemaking debba necessariamente trovare posto nelle pratiche aziendali e, soprattutto, nell’amministrazione della leadership.
Leadership: dal decision-making al sense-making
Se è indiscutibile che le decisioni (e il modo in cui queste vengono prese) sono sostanziali per la vita imprenditoriale e cooperativa in genere, comprendere il modo in cui il senso delle cose muove i processi organizzativi è fondamentale.
Davanti all’opportunità o al bisogno di discutere un problema, qualsiasi gruppo di persone reagisce pressoché allo stesso modo: una volta presentato l’oggetto di analisi, ognuno dei presenti darà voce alla propria prospettiva per creare un quadro collettivo della situazione che sia il più globale e completo possibile.
Facciamo un esempio banale: lavoriamo in una piccola azienda che produce giocattoli in legno, e nell’ultimo mese la produzione ha registrato un inspiegabile (almeno apparentemente…) calo del 30%. In una riunione, ognuna delle persone coinvolte potrà dare il proprio contributo osservando retrospettivamente l’accaduto e fornendone un’interpretazione.
Chi si occupa di amministrazione potrà comunicare, ad esempio, che nell’ultimo mese si è verificato un tasso di assenze per malattia al di sopra della norma; mentre il capofabbrica potrebbe aggiungere che nello stesso intervallo di tempo ha notato che, magari in seguito alla sostituzione di vecchi macchinari con nuovi modelli, i lavoratori impiegano più tempo del solito per assemblare lo stesso numero di prodotti.
L’interazione degli individui coinvolti produrrà un ambiente dotato di senso in cui il problema, in questo caso il calo della produttività, può essere spiegato da una serie di fattori individuati e descritti collettivamente a partire dalle intuizioni e dalle esperienze dei singoli.
La plausibilità delle informazioni utilizzate nella costruzione del senso contribuisce a determinare il significato dell’oggetto di analisi, ponendo basi essenziali per la fase successiva: quella, più popolare, del problem-solving.
Attraverso il sensemaking, il senso della realtà viene ricostruito a partire dalle esperienze degli individui attraverso un processo partecipato basato sulla retrospezione e su informazioni selezionate in base al loro livello di plausibilità all’interno del quadro affrontato.
Per sua natura, il sensemaking è un processo ricorsivo: questo significa che il pensiero influenza le azioni che verranno intraprese, che a loro volta diverranno oggetto di pensiero (retrospettivo), e così via.
In prospettiva costruttivista, considerando la realtà come una costruzione sociale creata attraverso il linguaggio e la comunicazione, i soggetti plasmano di volta in volta il proprio ambiente organizzativo accettando che questo retroagisca su di loro domandando nuove attribuzioni di senso.
Quando le persone attivano la propria capacità di retrospezione e la applicano a un fatto accaduto in precedenza, il resoconto narrativo generato (del tutto istintivo per gli esseri umani) aiuta a riflettere, organizzare la somma delle esperienze e cercare possibili modalità di controllo sugli eventi futuri.
L’attività di costruzione di un senso comune diventa, anche in senso strettamente etimologico, costruzione di con-senso, ovvero di una visione e di una narrazione condivise.
Sensemaking al servizio della leadership
Il leader è, letteralmente, colui che guida. Né più né meno del termine ormai desueto “capo”, che attribuisce a una persona il ruolo di “testa pensante” responsabile delle azioni di un organismo altrimenti sconnesso, le parole che utilizziamo abitualmente per definire l’individuo “di punta” di un’organizzazione sembrano fare invariabilmente riferimento a una sua non meglio specificata superiorità funzionale.
In Future research into knowledge management (1998), Venzin, von Krogh e Roos presentano come capacità distintive del leader il fatto di “sapere di più circa i presupposti epistemologici dei partner conversazionali” e l’abilità di utilizzare questa competenza per “aumentare la comprensione reciproca” delle parti cooperanti.
Se collochiamo questa intuizione nell’ambito dello studio del sensemaking in action, ci accorgeremo che questo processo assume una rilevanza sostanziale nel rafforzamento identitario di ogni leader: sviluppando relazioni con personaggi chiave all’interno del proprio ambiente di competenza, il “capo” immetterà nuova linfa (proveniente da diverse energie) nella propria squadra e supporterà la ricostruzione retrospettiva di ogni evento così da permettere a tutti di “produrre parte dell’ambiente che affrontano”, citando Weick.
In quest’ottica, il leader non è tanto colui che guida quanto la necessaria figura di riferimento capace di tenere le fila del discorso comune, e quindi dell’intero processo organizzativo.
Concludiamo questo approfondimento con una riflessione del già discusso Weick in The Social Psychology of Organizing:
“Se l’accuratezza è utile ma non necessaria per il sensemaking, allora cos’è indispensabile? La risposta è qualcosa che preservi plausibilità e coerenza, qualcosa che sia ragionevole e memorabile, qualcosa che incarni l’esperienza passata e le aspettative, qualcosa che tocchi le corde degli altri, qualcosa che possa essere costruito retrospettivamente ma anche usato in prospettiva futura (…). In breve, quello che è necessario per il sensemaking è una buona storia.”
Una storia, ovviamente, sensata e co-costruita.